Uno degli ospiti internazionali meno allineati che potevate incontrare a Lucca Comics & Games 2016 è certamente Brandon Graham, l’autore di Prophet e King City. Noi lo abbiamo fatto per voi, affascinati dalla sua personalità di autore indipendente per DNA, che si confronta con il genere e lo stravolge, ricreandolo a propria immagine e somiglianza come ha fatto con l’oscuro personaggio di Rob Liefeld, divenuto, sotto le sue cure, protagonista di storie sperimentali.

Le domande che gli abbiamo fatto, grazie alle sue risposte non banali, hanno preso presto una piega inaspettata, conducendoci a considerazioni sul mondo del fumetto americano, sulla salubrità delle sue dinamiche e su alcune scelte dell’editoria. Il tutto, grazie alla consueta disponibilità dello staff Panini Comics, che ringraziamo.

 

Come sta andando a Lucca? Prima volta in Italia?

Un posto bellissimo. Ho avuto l’occasione di girare la città e mi sto divertendo. La gente è davvero entusiasta.

Tu hai una formazione decisamente underground. Credo sia una semplificazione che però ti descrive molto bene e di cui penso che tu vada fiero.

Certamente.

Ma del resto ti confronti con personaggi e temi generalmente legati al mainstream. Possiamo dire che il principale è quello della fantascienza in quanto genere narrativo che consente maggior libertà rispetto ad ogni altro? Si tratta di un’inclinazione cosciente, che ti porta a mescolare lo stile underground con una narrazione più comune?

Prophet #1Sì, è decisamente cosciente. Non so se lo sia stata granché all’inizio, dato che sono stato cresciuto in mezzo ad autori di fantascienza e sotto l’influenza di un sacco di fumetti di questo genere. Forse, per me, sarebbe stato difficile non finire a riversare un sacco di strane idee bizzarre in una storia. Del resto è molto più divertente inventarsi tante versioni differenti di una vicenda.

Idealmente, cerco di parlare della mia vita e dei miei stessi sentimenti tramite idee bizzarre ed estremamente tragiche. Un sacco di tempo fa, ho scritto un fumetto in cui c’era un lottatore di sumo che doveva trovare il modo di entrare in un castello. A bloccarlo, c’era un guerriero. Il duello solenne sta per iniziare. Improvvisamente, suona un cellulare e il lottatore, protagonista della storia, deve interrompersi, trovare il telefono nei suoi mutandoni e rispondere. Quello ero io che parlavo della mia insofferenza per i cellulari all’epoca, per la costante interruzione che rappresentavano delle cose veramente importanti o veramente fiche della vita. Mi piace cercare di trovare modi strani per parlare della mia vita.

Credo che un’altra tua caratteristica sia la voglia di abbattere muri, tentare quel che agli altri sembra sostanzialmente improbabile, se non impossibile, e mostrare loro che si sbagliavano. Possiamo definirlo uno dei grandi piaceri della tua vita? E che Prophet sia una dimostrazione di tutto questo?

Credo di sì. Una parte importante di Prophet siamo io e i miei collaboratori che prendiamo un prodotto che non ci interesserebbe mai, praticamente l’opposto speculare di quel che ci piace, per trasformarlo in qualcosa che mi potesse piacere. Le origini di Prophet erano uscite negli anni Novanta, durante la mia adolescenza, e rendere quel personaggio, così brutto e legato strettamente al tipo di fumetto che si faceva allora qualcosa di completamente diverso, mi sembrava un modo per fare i conti con la mia giovinezza. E, dato che una componente importante della mia carriera è stata la ricerca di una mia identità, di un mio ruolo nel mondo del fumetto, trasformare Prophet in qualcosa di bizzarro e fantasioso è stato terapeutico.

E Prophet, inaspettatamente per molti, sta per tornare. Il personaggio e il tuo stile di narrazione su di lui, cambierà rispetto alla prima run? Se inizialmente hai preso il lavoro di Liefeld e lo hai completamente stravolto, questa volta stravolgerai i tuoi stessi risultati per darci qualcosa di nuovo?

Multiple Warheads, copertina di Brandon GrahamPer me, la sua storia è decisamente qualcosa che ha un inizio, una parte centrale e una fine. Non so quanto successo avrà e non voglio saperlo, ma ci ho pensato moltissimo e voglio decisamente dargli un finale. Ogni tanto penso a quanto sia leggibile, a quel che la mia storia potrebbe significare tra vent’anni. Non ne ho la più pallida idea, ma sarei curiosissimo di saperlo.

Io e gli altri ragazzi parliamo spessissimo di quel che vogliamo fare con il personaggio e la cosa che ci preoccupa di più è sempre decidere quali domande su di lui vogliamo che trovino risposta e quali invece no. Questo perché credo moltissimo in una narrazione che coinvolga il lettore come parte attiva del processo. Il che presuppone che alcune porte rimangano chiuse, per lasciare spazio di manovra a chi legge, per inventare le sue risposte. Ecco perché credo che Prophet sia sempre nuovo rispetto a sé stesso.

Un buon modo per lasciare per strada tutti i lettori troppo pigri.

Credo che ogni autore attragga il tipo di pubblico che meglio gli aderisce e io sono convinto che ci siano già abbastanza titoli là fuori che si sforzano di piacere a tutti. Cosa che non mi interessa. Sono molto più attratto da una storia che si riferisca a quella gente che non ha bisogno di conformarsi, di essere accettata per forza. Inoltre, spesso vediamo che le migliori storie, che siano film, serie TV o fumetti, hanno successo e provocano tanto più interesse quanto più sono personali e oscure, non immediatamente decifrabili.

In quanto autore, direi che sei un fan della contaminazione. Una parola piuttosto interessante e forse anche abusata nel mondo del fumetto americano di oggi. Le major stanno contaminando moltissimo in termini di autori, di scelte narrative, di stili. Tu cosa ne pensi di questo processo che vede Marvel e DC Comics inseguire il fumetto indipendente, portare nel mondo dei comics personalità che ne erano estranee fino a poco tempo fa e tentare nuove strade per rendere più interessante e diverso il prodotto? Si tratta di marketing o di qualcosa di positivo?

Spero tanto che ottenga risultati, per il semplice fatto che preferisco vedere in giro buon fumetto e non cattivo fumetto. Per me è difficile parlare delle major, perché la cosa che vedo sempre per prima è una contraddizione in termini: prendi un bravo autore, gli fai raccontare storie di eroismo, sacrificio, giustizia e poi non lo paghi, se non per una frazione minima del valore del suo lavoro, degli incassi che lui ha prodotto. Mi sembra sempre una cosa bizzarra. Ma, in generale sono un grande fan del fatto che persone che non fanno parte del nostro mondo entrino in contatto con il fumetto e se ne occupino.

Ho problemi con le celebrità che vengono a farsi belle con i comics, che mi pare diano quasi sempre risultati abbastanza stupidi e non interessanti. Se invece parliamo di autori, di narratori che si dedicano alla nostra arte, per me sono del tutto benvenuti. Se invece si parla di, che ne so, di personaggi dei reality show…

…o forse anche di musicisti?

King CitySì. Ecco. Per esempio, Gerard Way è un caso strano. Non ho niente contro di lui e non credo che gli manchino le qualità per fare il nostro mestiere. Tuttavia è un esempio di come una celebrità possa ottenere visibilità e la chance di fare il nostro lavoro più facilmente di autori che si spezzano la schiena da molto tempo. Inoltre ti dimostra come gli editori finiscano per preferire, in molti casi, il richiamo che il nome garantisce loro rispetto alla ricerca del talento là dove esso cresce e si sviluppa.

Inoltre, se penso a un autore come Ta-Nehisi Coates, che scrive Black Panther, sono del tutto favorevole. Non l’ho ancora letto e, se sarà bello, sarò il primo a riconoscerlo. Però non riesco a fare a meno di pensare a quanto più interessante sarebbe vedere lui e Brian Stelfreeze lavorare su qualcosa di completamente originale, convogliare gli stessi messaggi e lo stesso talento in qualcosa che sia loro.

Ho enorme stima per Kelly Sue DeConnick, che considero terribilmente intelligente e non priva del coraggio per dire esattamente quello che pensa del nostro mondo. Non riuscivo a capire, tempo fa, perché mai avesse deciso di lavorare per una compagnia che la trattava, dal mio punto di vista, in maniera poco consona al suo talento e alla qualità del suo lavoro. E mi ricordo una sua intervista in cui spiegava che la ragione principale era la grande platea che la Marvel le garantiva, per mettersi in mostra, arrivare a un pubblico più vasto possibile, farsi conoscere. E allora, fare il salto verso il fumetto indipendente, scrivere storie che siano tue e per cui guadagni quel che meriti in termini proporzionali.

Questo è un grande difetto del sistema, per me. Non dovrebbe essere necessario passare attraverso questa scelta, come se si venisse messi alla prova, come se si dovesse sopportare di lavorare in un luogo pessimo per poi guadagnarsi la libertà di fare quel che si vuole, di esprimersi liberamente.

Tuttavia, secondo me sarebbe stato peggio dieci anni fa. Oggi gli autori e gli artisti lavorano per le major per farsi le ossa per poi giungere alla terra promessa del creator-owned. Un tempo era il contrario, perché il fumetto indipendente non aveva mercato e non contava granché. In qualche modo, questo non porta case editrici come la Image e autori che fanno il passo verso di lei in posizione guida del movimento?

Sì, forse sì. Ma il mio timore è che a un certo punto del processo, chi lavora per il mainstream perda in qualche modo la propria voce, nello sforzo di uniformarsi allo stile che le case editrici ti richiedono. Se davvero tutti quanti dobbiamo passare da lì per affermarci, quanti punti di vista, quante idee e quanti fumetti originali, diversi, innovativi vanno persi nel processo?

Una buona domanda, a cui risulta difficile dare una risposta. Certamente tu, con King City e Multiple Warheads, hai avuto il coraggio di saltare questo passaggio e hai potuto giocare moltissimo con il linguaggio del fumetto e con le sue tecniche narrative.

Sì. Si tratta di due titoli parecchio personali, per me, soprattutto King City, in cui trova spazio molto della mia vita e dei temi che la attraversano. Giocare con il medium del fumetto è una cosa che mi ha sempre affascinato ed è un modo per mettermi costantemente alla prova, rinnovarmi costantemente e trovare nuove soluzioni per comunicare.

A questo proposito, ma anche più in generale, di chi faresti il nome se ti chiedessi di indicarmi le tue principali influenze?

Io leggo un sacco di cose da tutto il mondo. Direi che Moebius è stato una fondamentale ispirazione per me, assieme a tutti quelli del collettivo di Metal Hurlant. Milo Manara è un altro nome che mi viene in mente, a cui devo affiancare parecchi autori giapponesi. Akira Toriyama, senza dubbio, Masamune Shirow. Potrei citarti un sacco di autori americani e non solo che vengono dall’underground.

Una delle mie storie preferite è Savage Henry, di Matt Howart, che ha scritto e disegnato un sacco di cose sperimentali e folli. Racconta di una garage band i cui componenti provengono tutti quanti da diversi piani della realtà. Sembra tratto da una strip di Moebius sotto acidi. Uno dei componenti della band è Cthulhu. Il fatto è che sono davvero ossessionato dai fumetti e ne leggo di ogni genere.

E c’è qualcosa che stai leggendo ultimamente che ti senti di consigliare ai nostri lettori, che ti abbia colpito particolarmente?

Sono un grande fan delle storie di Michael DeForge e sto leggendo Urasawa, che tra i mangaka è uno di quelli che apprezzo di più. 20th Century Boys ha cambiato il modo in cui guardo ai manga e, forse, al fumetto in generale.