Dopo 4 anni dalla sua ultima visita, Terry Moore torna in Italia. L’occasione è la pubblicazione da parte di BAO Publishing del volume SiP Kidsnon è frequente che un autore così distante (vive a Houston, in Texas) faccia un secondo tour promozionale a tempo così ravvicinato, ma Michele Foschini ha sottolineato che la casa editrice ha pubblicato ben 14 volumi di Moore, che quindi è profondamente radicato nel DNA di BAO.

Durante l’incontro col pubblico all’Accademia di Belle Arti di Bologna organizzato in collaborazione con BilBOlbul, Moore ha parlato col pubblico approfondendo il suo processo creativo, ripercorrendo la sua carriera e rispondendo alle domande dei fan. Vi riportiamo un resoconto della chiacchierata.

 

Hai iniziato autoproducendo una tua serie negli anni ’90, realizzando un’opera di quasi 2.400 pagine raccolta in 6 volumi poderosi, molto influente per il fumetto americano. È interessante sentire che la definisci “il mio lascito” e consideri tutto quanto sia venuto dopo solamente come “altre esplorazioni”. In questo lavoro per te così importante tratti apertamente il tema delle relazioni omosessuali; hai avuto reazioni dalla comunità americana dell’epoca?

Terry MooreNel 1993 era tutto così diverso da oggi. La comunità gay non era perseguitata socialmente come tra gli anni ’40 e i ’60; era più accettata, ma era una tolleranza dove si preferiva che gli omosessuali stessero al loro posto (a Hollywood, nell’industria della moda), senza mescolarsi con gli altri. Inoltre stavamo uscendo dagli anni ’80, un periodo con un sacco di perdite umane a causa dell’AIDS; Ben, mio cugino, è stato uno dei primi casi di decesso per AIDS a San Francisco, e la sua famiglia non diceva nulla a riguardo, addirittura mia madre si vergognava di dirmi com’era morto. Era quasi come un’invasione di zombie, se eri gay potevi infettare gli altri.

C’erano cifre, statistiche, grafici a torte ovunque, numeri di vittime, ma poche persone pensavano a cosa dovesse attraversare veramente un individuo; il film Philadelphia riuscì a mostrare la straziante storia di un uomo, ma era l’eccezione. E nessuno parlava della comunità lesbica. Da uomo etero empatizzavo con questa categoria, ma non era un problema che mi toccava personalmente; scoprii però di essere molto interessato, volevo approfondire questo problema. Cosa significa stare in mezzo a quell’esperienza e viverla? Una persona ha una crisi di salute, ma la sofferenza coinvolge anche le persone vicine.

Inoltre volevo esplorare l’interazione tra i sessi, e cosa provasse una donna costretta a vivere in un mondo pieno di predatori, girando sempre in compagnia delle amiche, tenendo il cellulare a portata di mano e lo spray urticante nella borsetta. In quegli anni le comiche americane facevano solo monologhi arrabbiati, non c’era nulla della dolcezza di oggi, perciò volevo rappresentare quella spinta esplosiva.

Le prime reazioni all’inizio degli ’90 non sono state buone: quando affrontai la morte di Emma per AIDS, un amico mi chiese che diavolo stessi facendo, una lesbica invece mi scrisse: “Se farai una storia in cui l’etero David converte la gay Katchoo verrò lì e ti ucciderò”. Non capivano perché in questa commedia leggermente sexy volessi affrontare temi simili, ma ho continuato comunque. Questa sensazione di blando rifiuto mi ha fatto capire che stavo andando in una direzione importante. Se qualcuno prima non apprezzava un mio disegno mi abbattevo, mentre a quel punto mi sentivo parte di una militanza, capivo cosa significa essere gay, lesbica, transessuale, visto che solo per aver sfiorato la superficie di una problematica stavano cercando di emarginarmi.

Questo per il primo paio d’anni, poi i lettori hanno cominciato a conoscere i personaggi e affezionarsi a loro, ricevevo lettere da madri, padri, ragazzini gay, preti, che tifavano per le protagoniste perché il loro amore era forte. Questo mi ha ridato fiducia nell’umanità, tutti in America volevano bene a queste due ragazze, prima mi basavo solo sui notiziari, ma queste lettere forse erano un’altra realtà. Tutti mi scrivevano: “L’amore è amore, quindi queste due ragazze devono stare assieme”. Ci sono un sacco di persone che vogliono essere felici, e se siete innamorati, buon per voi.

Hai saputo fin dall’inizio come sarebbe finito Strangers in Paradise?

Strangers in ParadiseSì, ma il finale originale era così tetro che dopo l’11 settembre 2001 l’ho un po’ cambiato, perché c’erano già state tante cose tristi. Nel corso degli anni io cambiavo all’esterno, ma all’interno sono sempre lo stesso, anche se gli altri mi giudicano in base all’aspetto esteriore. Al momento la gente pensa che io sia un dentista. [ride] Ho cominciato a guardare le persone aggirando la loro esteriorità.

La ragione per cui ho scelto il fumetto come medium è perché vengo dall’industria televisiva, dove ho lavorato come montatore video. Quando ho avuto l’idea per Strangers in Paradise avevo dei contatti, avrei potuto proporlo come prodotto per la TV, ma realizzandolo sotto forma di fumetto non ho dovuto parlare con centinaia di persone per convincerle che fosse un’idea valida e poi per completarla secondo la mia volontà. È un processo molto più veloce, posso procedere da solo. È così liberatorio.

Ciò che rende così meraviglioso il fumetto, soprattutto nei volumi di grande formato, è che possiede il potere narrativo dei romanzi e la forza visiva dei film, tutto sulla pagina. Più invecchio e più mi domando se sto sprecando il mio tempo, ma riflettendoci sono convinto di  star facendo quello che voglio della mia vita: raccontare storie è un buon modo per passare il poco tempo che mi rimane. Lo faccio in un piccolo studio in Texas e ci sono persone in Italia che leggono le mie storie e le comprendono. Mi connetto con persone in giro per il mondo e per farlo non ho dovuto convincere migliaia di persone a spendere migliaia di dollari per fare una scena di un film ad alto budget, è stato sufficiente un traduttore.

Hai parlato di film e serie TV: sarà possibile vedere qualche prodotto adattato?

Sì. Ho scritto un episodio pilota per Rachel Rising e stiamo lavorando per farlo uscire, al momento è la mia priorità. C’è un altra compagnia interessata a farmi scrivere un film di Echo, e l’unica mia richiesta è che sia io a scrivere il copione. Perché opzionare i diritti se poi lo fai scrivere a un autore diverso? Sarebbe come fare una fan-fiction! Visto che sono uno scrittore e credo di essere in grado di farlo, la condizione è quella.

Fa tutto parte di un piano con tre passaggi. Realizzo la serie tv di Rachel Rising, così poi mi lasceranno fare il film di Echo. E una volta completato anche quello, magari avrà successo e mi chiederanno: “Ehi, per caso hai qualcos’altro?”… e io accennerò a una cosina a cui tengo molto.

In una serie così lunga, come cambia il rapporto tra autori e personaggi?

Rachel RisingTutte le persone da cui cercavo di apprendere mi dicevano di provare a scrivere i personaggi, e io non capivo come sbloccarmi. Il momento in cui tutto è cambiato è stato quando ho smesso di pensare a loro come personaggi, ma come persone: com’è la voce di ognuno, il profumo, come si muovono i capelli nel vento. E quando scrivi di persone come del genere, ti svegli e passi la giornata con Katchoo, Julie, Rachel. Con un cast così vasto di persone le relazioni cambiano e si evolvono sia tra di loro che con me. Dev’esserci una relazione molto stretta con loro.

Ci sono alcuni personaggi bidimensionali come Freddie e Casey che erano piatti, nati come intermezzi comici, elementi di leggerezza all’interno della trama. Scrivendo di loro però ho avuto un momento in cui li ho compresi, come un attore che cerca di comprendere il ruolo che deve interpretare. Mi sono reso conto che Freddie era così perché il padre lo aveva maltrattato da piccolo, mentre Casey era l’unica a riuscire a mettere Katchoo di fronte alle scelte che doveva affrontare.

Quando ho dovuto concludere Strangers in Paradise è stato come se stessi costringendo i Beatles a separarsi, un cast così efficace non si sarebbe più visto. Un lunedì il mio lavoro era scrivere quei personaggi e il martedì hanno smesso di parlarmi. Ora sono nostalgico a riguardo, quando li disegno agli incontri col pubblico penso che ora sarebbero così a Santa Fe, dove li ho lasciati. Mi sento come un genitore che deve dire addio ai suoi figli. E come tutti i figli, non telefonano mai a casa.

Quanto è difficile per uno scrittore di fumetti fare lo sceneggiatore di un altro media visivo, come il cinema o la TV?

Be’, per uno scrittore di fumetti questo passaggio è più facile rispetto che per un romanziere. La priorità in un fumetto è comunque il dialogo. Il ritmo e i testi devono essere precisi, ed è una prerogativa in comune con il media televisivo. Se scorrete le pagine di una sceneggiatura sono soprattutto dialoghi, a parte Alan Moore, che scrive le descrizioni degli ambienti in prosa, come se fossero brani di un romanzo. Lavorando per il pilota di Rachel Rising ho addirittura utilizzato lo stesso programma, Final Draft. La mia sceneggiatura di un albo a fumetti sembra quella di un episodio di una serie TV da 30 minuti.

Se sei un romanziere il tuo compito è realizzare immagini complete, puoi usare 1.000 pagine per descrivere un fiore. In una sceneggiatura televisiva scriveresti: “C’è un fiore”. In un fumetto hai uno spazio ridotto per i dialoghi nella pagina; quello spazio diventa molto prezioso, quindi tutto ciò che metti dentro a un ballon dev’essere davvero importante.

In Strangers in Paradise hai inserito anche poesie e canzoni: da dove nasce questa esigenza e come si è evoluta nel corso della serie?

In Strangers in Paradise volevo mettere tutto, visto che ci ho lavorato per 11-12 anni. Quando ero un musicista ho portato una demo a un produttore, che ha ascoltato un minuto di dieci mie canzoni, e mi ha detto: “Ogni canzone ha una cosa valida, è carina. Ma perché non le metti tutte in una sola canzone che sarà grandiosa?”. Ho fatto tesoro di questo consiglio e me lo sono portato dietro nel mondo del fumetto. Ogni persona ha un quaderno in cui si segna tutte le cose, anche quelle che non c’entrano con altri progetti. Perciò è un po’ come se avessi pubblicato in Strangers in Paradise tutto il mio sketchbook, e col tempo ho familiarizzato con i singoli elemento perfezionando la loro resa finale.

Quali autori ti hanno ispirato di più? E c’è una storia per cui hai detto: “Cavoli, avrei voluto scriverla io!”?

Di sicuro Jeff Smith, con cui ho collaborato nel corso della mia carriera, e Dave Sim, che mi ha guidato e spinto a fare una mia opera autoprodotta. Il livello più alto di questo settore è Alan Moore, lui non crea solo cultura pop, ma è proprio una mente classica, degna di nota. Per il grande intrattenimento c’è anche Mark Waid, tutto ciò che tocca è interessante, ed è davvero una bella persona. Cerco di non essere geloso delle storie degli altri, non invidio nessuno, sto sulla mia isoletta e ci sto bene.

Le storie che mi hanno emozionato ultimamente sono il manga Spirit of Wonder e Power Girl di Jimmy Palmiotti. La ragione per cui mi è piaciuto Power Girl è che se potessi scrivere di un supereroe, sarebbe Supergirl: è forte come Superman ma è sexy. Non dovrebbe essere soltanto una spalla, ma un personaggio di punta della DC Comics. Non ha mai funzionato quando mi sono proposto alla casa editrice, ma quella run di Power Girl è il tipo di storia che avrei scritto io per Supergirl.