A Cartoomics 2016 abbiamo avuto modo di intervistare Claudio Acciari, l’autore di Meka Chan (QUI la recensione), particolarissimo volume edito da BAO Publishing che ci propone una sorta di fiaba fantascientifica, disegnata e raccontata nello stile dei manga, anzi degli anime giapponesi degli anni Settanta, e presentata ai lettori non con il linguaggio del fumetto, ma codificata nelle forme di uno storyboard. Meka Chan è un esperimento interessantissimo e una storia aggraziata che merita non solo una lettura approfondita, ma grande attenzione da parte del pubblico più attento. Ringraziamo lo staff di BAO, per la disponibilità e il tempo concessoci per questa interessante chiacchierata con Claudio Acciari.

 

 

Il tuo percorso per arrivare a Meka Chan è molto particolare, infatti sono convinto che un progetto di questo genere potesse trovare casa soltanto a BAO Publishing, attualmente la casa editrice italiana che più di ogni altra sa trasformare prodotti così fuori dagli schemi in una proposta concreta e coerente. Vorresti raccontarci un po’ la genesi della storia, dato che non possiamo definirla un vero e proprio fumetto?

Dal punto di vista pratico nasce come sigla di un cartone animato inesistente. Essendo io un musicista, ho scritto la sigla di un ipotetico cartone animato del passato, che ovviamente non è mai esistito. Ho scritto testo e accordi, e una cara amica mi ha prestato la sua voce. Ho quindi realizzato delle illustrazioni che potessero alludere al mondo di quell’animazione giapponese anni Sessanta, quella di Conan di Miyazaki o, ancor prima, de L’Isola del Tesoro della Toei Animation.

meka chanEra un periodo in cui mi ero appena riviso la serie di Jenny la Tennista e c’è anche qualcosa di quel modo di rappresentare la femminilità. Mi piaceva poi l’idea di un androide che, a differenza dei classici Kyashan, Hurricane Polymar o Tekkaman fosse un po’ più gradevole agli occhi. Il risultato è stata una figura femminile simile a Cibernella, per chi se la ricorda.

Poi, sicuramente, le atmosfere che mi hanno colpito di più e che sono più riconoscibili in Meka Chan sono quelle del Galaxy Express di Leiji Matsumoto. Si è trattato di un’ispirazione spontanea, non progettata e che non ho voluto toccare per ragioni di appeal per i lettori. Per la prima volta, da autore, dopo anni di esperienza di animazione in cui mi sentivo pilotato dalla necessità di compiacere il pubblico, ho potuto essere del tutto libero e addirittura terapeutico. Finalmente ho potuto sbagliare e considerare i miei errori delle ingenuità dovute alla spontaneità, che mi mancavano nel mio lavoro precedente.

E di preciso quali sono state le tue esperienze nell’animazione?

Ho lavorato per sette mesi in un piccolo studio italiano, dopo di che mi sono trasferito in Germania per una casa di produzione di film che scimmiottavano i prodotti Disney, la Munich Animation. Per loro ho lavorato a The Fearless Four, della Munich Animation, dov’era coinvolto anche Zucchero Fornaciari, assieme a gente come B.B. King e James Ingram che davano la voce ai personaggi. Poi sono sbarcato in America, alla Dreamworks, dove sono stato animatore su Il Principe d’Egitto e La Strada per Eldorado. Quindi son tornato in Italia cercando di mettere in pratica le conoscenze acquisite per portare avanti la mia passione per l’animazione giapponese anni Settanta, cioè un prodotto che non è richiesto in nessuna parte del mondo. Per questo sono in qualche modo approdato al fumetto come autore, perché non potevo fare animazione come volevo io.

Meka Chan nasce quindi come progetto d’animazione vero e proprio?

Diciamo che ho fatto finta di sì, per un po’, ma la verità è che mi sono affezionato al prodotto in quanto tale. Ecco il perché l’idea della sigla ed ecco perché questa voglia di pubblicare uno storyboard come una storia, senza che sia la parte di studio. C’è questa moda degli artbook, ultimamente, che vanno molto forte presso il pubblico. E allora perché non considerare la fase preparatoria di un’opera come il risultato finale di uno sforzo narrativo e artistico? Ha senso nella sua incompiutezza.

Meka Chan è tecnicamente, come hai detto, uno storyboard pubblicato in volume. Cosa molto interessante perché se certamente ci sono dei punti di contatto con un fumetto, le differenze in termini di tecnica narrativa sono notevoli e sostanziali.

Ti dirò, io faccio fatica a paragonare il mio lavoro, dal punto di vista tecnico, con il linguaggio del fumetto, perché non ne sono un gran lettore, anche se da ragazzino mi piaceva molto leggere Topolino e i Peanuts. Io mi sono proprio immaginato il film di Meka Chan in testa e poi ho trascritto i dialoghi. Se vuoi, ho fatto anche riferimento, almeno in parte, all’estetica dell’albo di figurine.

Sì, posso capire cosa intendi, perché in effetti, in questa storia tu non hai dovuto porti il problema della gabbia e della divisione in vignette della pagina, che risulta semplicemente il luogo che accoglie le immagini della storia una dopo l’altra, tutte con le stesse dimensioni e giustapposte l’una all’altra. L’inquadratura cambia, ma la vignetta è sempre uguale. Come quasi sempre accade negli storyboard, giusto?

Sì. Tra l’altro il risultato finale di Meka Chan è un adattamento di un primissimo storyboard che avevo realizzato in verticale, come è tradizione in Giappone. C’erano cinque vignette per pagina, soluzione che poi ho negoziato volentieri con Michele Foschini e Caterina Marietti, per ragioni di leggibilità ed esposizione. Del resto, quando ho capito che loro due avevano afferrato l’essenza del racconto, mi sono affidato a loro, che hanno avuto grande rispetto del mio lavoro dal punto di vista autoriale. Credo che abbiano trovato la soluzione migliore.

Per quanto riguarda l’impaginazione, un’altra questione che ho potuto ignorare rispetto al fumetto sono i balloon, che sarebbero stati un’interferenza e non devono esserci in uno storyboard. Quando pensi a un film, devi pensare alle immagini come qualcosa di puro e di separato, per poi ragionare sui dialoghi come alla traccia sonora, che non deve interferire visivamente con l’immagine. Cosa che in qualche modo recupera molti dei fumetti della prima metà del secolo scorso, che vedevano i testi al di fuori della vignetta, impostazione mantenuta nel cinema anche se abbandonata dai fumetti.

Mi parlavi dell’iniziale verticalità del progetto come nell’animazione giapponese e della tua specifica formazione tecnica su questo genere. Nella storia, la protagonista Meka Chan è un androide che finisce per diventare del tutto umano, ma viene da una razza il cui fine è trasformarsi al 100% in un essere meccanico. La nostra eroina è buona, non vuole smettere di aiutare gli altri e questo le fa perdere percentuali di artificialità, la trasforma pian piano in una ragazza. Ora, la domanda è: c’è una metafora metanarrativa in questa storia? Meka Chan è una dichiarazione di intenti con cui vuoi dichiarare un’umanità superiore, forse un valore superiore dell’animazione tradizionale rispetto a quella in computer graphic che oggi va per la maggiore?

Dunque, io ho trovato un approccio verso il mio lavoro per cui, se sto lavorando su commissione sono assolutamente distaccato e professionale. Quando invece lavoro per me stesso voglio entrare in contatto con ciò su cui sto lavorando. Trovo che sia molto più sano separare queste due situazioni creative. Nel lavorare a Meka Chan ho pensato a una rappresentazione simbolica di queste due istanze di ognuno di noi, che convivono e si confrontano. Non sappiamo mai, credo, se sia meglio essere razionali e distaccati oppure dire esattamente quel che pensiamo e comportarci in maniera spontanea. A volte scegliere la convenienza pratica, professionale e materiale conviene, altrove invece fa un danno alla tua psiche.

Ecco perché i miei personaggi rappresentano un problema irrisolto. Si tratta di una favola, dal punto di vista di genere, per cui non ho voluto avere un approccio troppo scientifico alla trama, non spiegare troppo. Lasciare che le cose accadessero senza che per forza le ragioni fossero del tutto chiaro. In Meka Chan la struttura dell’androide era sì una metafora, soprattutto di queste due anime: quella razionale e quella emotiva, con tutti i pro e contro dell’una e dell’altra. Ovviamente, prima o poi, dovevo prendere una parte e, se devo, scelgo l’umanità.

Le mie fonti di ispirazione sono poi ancora i lavori di animazione del passato, non solo dal punto di vista tecnico, ma anche perché sono convinto che prendessero ispirazione da logiche che non erano informate in maniera preponderante da ragioni manageriali. Galaxy Express è un esempio perfetto, perché è la trasposizione di un fumetto d’autore di Matsumoto. Anche oggi, in Giappone, accade che i film di Takahata sono quasi promossi e annunciati come dei flop, perché sono idee talmente azzardate che te la vai a cercare, pare impossibile proporle al pubblico di massa. Però questa cosa mi attrae moltissimo in quanto rivendicazione rispetto alle regole di marketing che corrompono spesso il processo creativo prima ancora che l’artista metta la matita sulla pagina, perché sin da subito lo castrano nelle scelte. In questo senso Meka Chan è una provocazione e un’esaltazione dell’errore, dell’anomalia che ha un suo valore.

Al che torna la mia domanda: visto che prendi parte nella storia e c’è un antagonista identificabile in Meka Chan e appartiene alla razza degli androidi da cui la tua eroina proviene, se restiamo nella metafora precedente che ti proponevo, l’animazione troppo adagiata sulla tecnologia per te è qualcosa di negativo o no, nella tua visione artistica e personale?

Io parlo per me, del mio vissuto, delle mie esperienze, in questo senso c’è quel che tu proponi. Personalmente non è quello il mio mondo, anche se altri certamente possono trovare il massimo della loro espressione proprio lì.

Quindi per Claudio Acciari la Pixar non è il cattivo? La Pixar o chi per lei.

[Ride] Qui non ti so rispondere. La Pixar e le compagnie di animazione digitale utilizzano un corpo di artisti eccellenti, ma io la vedo come una struttura, termine importante anche per Meka Chan, che si giustifica nel momento in cui gli incassi sono enormi. Anche la razza degli androidi ha le sue ragioni, razionali, per fare quel che fa, ma le sue azioni risultano, per gli umani, negative. Avere un investimento enorme, che impone un rischio altrettanto ingente in caso di fallimento, mi chiedo se sia un atteggiamento sano nei confronti di un’industria che produce arte. L’artista, messo nelle condizioni di sapere che, se il suo lavoro non avrà successo, le conseguenze saranno gigantesche, si trova in una condizione normale e corretta?

Vedi, per me non è solo questione di risultato, quando si confeziona una storia in animazione o meno, ma c’è un valore anche nel modo in cui nasce il prodotto, non solo nel modo in cui viene fuori. La Pixar fa i film in CGI perché si è visto che va di più, che un certo tipo di immagini e di movimento rende di più. Allora dove si trova la libertà dell’artista, il controllo delle sue emozioni, la possibilità di mettere quelle nel prodotto finale? La tecnica, temo, sta diventando una religione che rischia di spersonalizzare i creativi, non più un mezzo a nostra disposizione. Ovviamente questo è un timore, non una certezza. Io non posso dire che l’animazione digitale sia il male, non ho una posizione così netta. Ma certamente faccio fatica a scindere gli elementi di arte e industria, di struttura e artista a partire da prodotti come questi. La mia forma di rivelazione di me stesso è quella tradizionale, ma non è detto che non si possa trovare lo stesso anche nell’animazione in CGI.

Quello che posso dirti che mi manca è il fatto che ogni artista, nell’epoca che preferisco riguardo questa forma narrativa, ovvero gli anni Settanta, era una sorta di pianeta. Si trovavano in giro prodotti immediatamente riconoscibili e, soprattutto, diversissimi tra loro, nemmeno paragonabili. Mentre il successo planetario a cui assistiamo oggi pone dei parametri a cui non ci si può semplicemente più sottrarre, perché diventano la pietra di paragone del successo.

Un po’ come la Disney che non ha potuto prescindere dal successo Pixar e oggi la insegue un po’ su tutti i campi, invadendo il suo ambiente specifico e dandoci prodotti come il recentissimo Zootropolis.

Esatto. E ti dirò di più: gli artisti che hanno realizzato proprio Zootropolis sono alcuni tra quelli che apprezzo di più dal punto di vista tecnico, della resa effettiva del loro lavoro. Ma rispondono a logiche, in quel contesto, di meccanismo. A quel meccanismo vanno le mie critiche, perché faccio sempre più fatica a rapportamici, a lavorarci dentro, perché mi costringerebbe ad ascoltare delle voci che non sono quelle che stanno nel mio cervello.

Grazie mille, Claudio. Ultima domanda: ci sono nuovi progetti in volume o su carta nel tuo futuro?

Guarda, proprio non te lo so dire, perché io sono uno che fa le cose all’ultimo momento, se se la sente. Di solito quando decido prima di affrontare un impegno, mi viene uno schifo.

Allora attendiamo di scoprire se ti arriverà l’ispirazione per un nuovo progetto.

 

Il primo acquirente di Meka Chan non appena è stato reso disponibile sul sito di BAO Publishing? La Pixar, parola di Michele Foschini.