A Lucca Comics & Games 2015 abbiamo avuto la fortuna di poter intervistare il vincitore del Gran Guinigi 2015 come miglior autore completo Asaf Hanuka. Se avete letto le nostre recensioni di Il Divino e di K.O. A Tel Aviv, sapete tutto sulla nostra ammirazione per questo artista, ospite di BAO Publishing assieme al fratello Tomer. Ringraziando lo staff di BAO Publishing per la consueta disponibilità, vi lasciamo alle parole di Asaf Hanuka.

 

Il divinoAbbiamo letto Il Divino, graphic novel per cui avete realizzato i disegni e che concilia il fantastico con il crudo realismo della guerra. Le soluzioni visive che avete trovato sono molto interessanti, la parte migliore del fumetto. Qual è stato il vostro approccio a un compito così complesso?

Il mix di realtà e fantasia era insito nella sceneggiatura e, per quanto riguarda la nostra parte, il concetto fondamentale era mettere in scena la guerra tra le due visioni del mondo: quella degli adulti e quella dei bambini protagonisti della storia, quella dell’Occidente e quella della cultura asiatica. La prima parte fa riferimento ai paesi Occidentali, dal punto di vista del protagonista principale, di un professionista americano convinto di essere rispettabile e realizzato. Ma una volta giunti nella giungla, tutto quanto cambia, siamo nel mondo dei due bambini ribelli e guerrieri, dotati di poteri sovrannaturali. Abbiamo voluto separare nettamente le due fasi narrative in questo modo, tramite la connotazione cromatica dell’opera.

Quindi non esiste alcun punto d’incontro all’interno della storia.

Trovo che sia stato più interessante mettere in scena lo scontro, piuttosto che l’incontro tra le due culture, tramite il fortissimo contrasto di stile con cui io e mio fratello abbiamo voluto connotare la vicenda.

Come artista e narratore, sembri avere una predilezione per le storie tragiche. Il Divino, scritto da Boaz Lavie, è un fumetto violento tanto negli eventi quanto nella psicologia, mentre nelle strip di K.O. a Tel Aviv metti in mostra le difficoltà della vita di tutti i giorni di un tuo diretto alter ego fumettistico.

Be’, vedi… quando sono felice, non ho bisogno di disegnare. Vado in spiaggia, esco, mi bevo un caffé con gli amici. Ma sono i miei problemi, i miei dubbi, le mie paure a ispirarmi. Quando ho un problema che non so come affrontare, cerco di infilarlo in nove vignette, nove inquadrature, e di scriverci sopra una storia. Provo a pensare a come si svolgerebbe secondo una scaletta ed è come se riuscissi a processare, in questo modo, le mie paure, facendo il punto della mia vita. Il mio terrore più grande è probabilmente finire in mezzo a una strada: se trovo la forza di disegnare me stesso in quella situazione particolare, improvvisamente mi trovo a pensare che tutto sommato non sarebbe poi così tragico, che una speranza e una soluzione si potrebbero anche trovare. Mi faccio terapia per immagini. Ecco perché sono un fumettista un po’ deprimente.

K.O. a Tel AvivParlando delle tue paure e difficoltà, oggi come oggi pensi che sia più difficile, vivendo a Tel Aviv, essere un padre o essere un fumettista? Siamo rimasti ammirati dalla sincerità con cui, nelle tue strip, riesci a mettere in scena la durezza di queste due condizioni in un paese difficile come Israele.

Bella domanda! Penso che la cosa più difficile sia essere un padre che vuole essere un fumettista. Nel nostro Paese, questo mestiere viene visto come qualcosa di irrealistico, mentre invece essere un padre, per un ebreo, è fondamentale, dal punto di vista culturale. Tutti hanno figli, c’è una certa pressione sociale. Ma l’industria dei fumetti a Tel Aviv posso solo definirla come suicida, manca di basi editoriali serie. Tuttavia non c’è mestiere che io possa o voglia fare nella vita tranne realizzare fumetti.

I colori sono ovviamente una parte importantissima della tua arte. Di Il Divino abbiamo già parlato, ma anche in K.O. a Tel Aviv li usi per caratterizzare moltissimo gli stati d’animo delle singole storie, in maniera estremamente varia e molto originale. Qual è per te il valore e quale la funzione dello strumento cromatico nei tuoi fumetti?

Visto che lavoro molto velocemente, realizzando una tavola ogni settimana, ogni scelta che faccio deve avere una ragione molto solida. Vale per le matite quanto per i colori che uso. Ecco perché ci sono contrasti molto forti, pochi compromessi, atmosfere cromatiche decise. I colori sono uno dei modi con cui devo rendere chiaro immediatamente il mio stato d’animo, far capire le mie intenzioni al lettore. In più credo che siano la componente più emotiva in assoluto delle immagini e che consentano davvero di manipolare in molti modi il tono di una pagina.

Con il tuo fumetto online, The Realist, dal mio punto di vista hai dimostrato di essere uno dei più interessanti artisti del panorama web degli ultimi anni. Qual è la tua visione del fumetto digitale? Come lo vedi evolversi nel futuro prossimo?

Guarda, per me è stato un mezzo fondamentale, senza cui non avrei mai potuto sottoporre il mio lavoro all’attenzione del pubblico internazionale. Il primo a interessarsi a quel che facevo è stato un editore francese e da lì è iniziato un processo che mi ha portato a pubblicare K.O. a Tel Aviv in altre sette lingue, tra cui la vostra. Il lato oscuro del fumetto sul web sono i commenti, l’odio che a volte ti tiri addosso, quasi sempre su questioni politiche e razziali. C’è gente che mi accusa irrazionalmente per tutto quel che di sbagliato fa lo Stato di Israele. Inoltre c’è l’impegno dal punto di vista dei social media, che porta via molto tempo e che ti costringe a volte a partecipare a conversazioni spiacevoli. Con il tempo, questo lato del lavoro è diventato un po’ un mostro. Ho dovuto prendermi una pausa e ho deciso di restare in silenzio per un periodo per concentrarmi e ritrovare il mio equilibrio. Quindi penso che i webcomic siano una gran cosa per iniziare, ma non li raccomanderei a lungo termine.

KO a Tel AvivTi dimostri molto coraggioso nella scelta dei tuoi temi, degli argomenti personali che traduci in fumetto. Non hai paura di scavare in profondità nel tuo animo e di metterti in qualche modo a nudo. D’altro canto non schivi nemmeno l’argomento politico, mostrando quanto tutto ciò, in Israele, sia connesso alla vita di tutti i giorni. Come mantieni equilibrio fra questi due argomenti?

Il fatto è che la mia vita è terribilmente banale, quindi le storie che riguardano solo me non sarebbero assolutamente interessanti. Tuttavia posso usare me stesso come una metafora per raccontare qualcosa che interessa a tutti e riguarda il mio paese. Ad esempio, se voglio rappresentare la tensione tra Israele e la Palestina, utilizzo un litigio tra me e mia moglie, in maniera allegorica. Inoltre, quando parli di politica, la gente fa molto in fretta a saltare alle conclusioni, a fraintendere e accusare. Questo modo di parlare di quegli argomenti mi permette di deviare gli sguardi troppo affrettati, che di solito appartengono a persone litigiose. Schivo molti proiettili, insomma. Si tratta di un trucco emotivo anche: io ho una vita complicata, sono un po’ uno sfigato, quindi è facile empatizzare con me, con quel che metto sulla pagina. Quando e se i lettori capiscono che sto parlando di politica, magari senza essere d’accordo con loro, li ho già in qualche modo portati dalla mia parte, almeno un po’.

Credo che ci sia anche un notevole e interessantissimo contrasto fra la tua vita, che tu stesso definisci ordinaria, e il luogo in cui essa si svolge, che certamente non è un posto come tutti gli altri.

Ti dirò, per me Israele è un luogo come gli altri, perché ci sono nato ed è quel che conosco: è la situazione di cui sono il prodotto. Quindi non ho la tua percezione di Israele come luogo diverso, eccezionale. Ho vissuto quattro anni in Francia e non mi sono sentito particolarmente al sicuro nemmeno lì. Comunque nel mio Paese ci sforziamo molto per avere una vita normale, alcuni forse fingono di averne una. Però tutti sappiamo che, in ogni momento, può letteralmente esploderci in faccia il mondo. Ci si abitua persino a questo e, con il tempo, va bene così.

Be’, spero che tu ti senta al sicuro qui a Lucca.

Sì, eccome. Mi sento davvero bene qui. Ho mangiato benissimo, ho dormito come un sasso e sto proprio bene.

Si tratta di un’esperienza soddisfacente per te e tuo fratello, sin qui?

Be’, è la mia prima volta qui in Italia e sono commosso per il premio come miglior cartoonist che mi è stato assegnato per K.O. a Tel Aviv. Tutti sono gentilissimi con noi e spero di poter tornare molto presto. BAO Publishing ci ha trattati alla perfezione e credo che abbia fatto un lavoro splendido nel confezionare l’edizione dei miei fumetti, in termini di scelta della carta e del formato. Inoltre i fan che ho scoperto di avere qui in Italia sono molti di più rispetto a quelli di altri Paesi e credo che voi, come lettori, riusciate davvero a capire il mio lavoro, il mio fumetto. Ti assicuro che non è così ovunque; persino in Israele, spesso. Non riesco a spiegarmi perché, ma ho la sensazione che voi, come pubblico siate davvero in grado di comprendermi.