A-Force #1Vi abbiamo parlato qualche tempo fa di A-Force, la squadra tutta al femminile di Avengers, messa insieme dalle sceneggiatrici G. Willow Wilson e Marguerite Bennett, che proprio in questi giorni inizia il suo cammino con la serie omonima. Qualche giorno fa, sull’argomento, è uscito un pezzo del New Yorker firmato dalla giornalista Jill Lepore, accademica di storia e letteratura nientemeno che all’università di Harvard.

L’articolo racconta la lettura del primo numero di A-Force all’indomani della visione di Avengers: Age of Ultron, da parte della Lepore, del figlio di dieci anni e di un amico della stessa età appassionato lettore di fumetti Marvel. In sostanza si rileva come molte eroine abbiano origini strettamente subalterne a dei prototipi maschili (She-Hulk dal Golia Verde, Rescue da Iron Man e così via), come la squadra sia assemblata da personaggi che stanno assieme per il solo motivo di essere donne e la profondità costantemente enorme delle scollature delle ragazze in costume dell’A-Force, che apparirebbero vestite da pornostar. Sostanzialmente, la Lepore boccia l’operazione come un fallito tentativo di apparire più rispettosi della figura femminile da parte della Marvel, che produrrebbe l’effetto contrario.

Tra le molte reazioni del comicdom, da cui è piovuta quasi unanime la critica secondo cui il pezzo non fa che rafforzare l’idea di fumetto come prodotto esclusivamente per ragazzini, spicca la risposta dell’autrice G. Willow Wilson, che vi riportiamo nei suoi punti più interessanti.

Sono piuttosto contenta di questo articolo: quando un professore di Harvard parla di te, vuol dire che hai combinato qualcosa nella vita. Tuttavia voglio rispondere nel merito ad alcuni dei punti sollevati.

Ho incontrato la Dottoressa Lepore quando ero una studentessa, durante una lezione sulle guerre tra indiani e francesi. La ricordo come una storica appassionata e intelligente. Ecco perché mi sorprende che una persona così attenta commenti il primo numero di una serie legata a un enorme crossover senza conoscenza di quel che ci sta dietro e tutto attorno, definendo Arcadia [il territorio di Battleworld teatro degli eventi] con la facile espressione “paradiso femminista”, senza alcuna consapevolezza (lo sa che ci sono gli zombi? qualcuno, vi prego, le dica degli zombi!). Decontestualizzata in questo modo, ciò di cui parla la Lepore non è che una copertina che rappresenta un gruppo di supereroine di cui lei amette di non sapere assolutamente nulla. Forse per questo la sua analisi lascia perplessi e risulta addirittura irrispettosa.

A-Force #1, variant cover DLa narrativa di genere fa largo affidamento sui topos, su luoghi comuni formali condivisi. Il cavaliere errante solitario, il sopravvissuto alla catastrofe, il salvatore che si sacrifica. Roba così. La buona narrativa di genere è tale perché gli autori maneggiano in modo intelligente questi archetipi, a volte sovvertendoli, a volte evolvendoli, a volte rispettandoli e mostrandoli per ciò che sono. Negli ultimi anni, con opere come The Walking Dead, Gravity, District 9, il meraviglioso film I Figli degli Uomini, abbiamo apprezzato come si possa scavare più a fondo in quei topos e grazie ad essi, raccontando aspetti che di solito non consideriamo nella narrativa di genere. Quel che li rende magistrali è l’utilizzo di queste icone per raccontare degli aspetti della condizione umana in generale. In poche parole, ecco la buona narrativa di genere: usare i clichè in modo creativo.

Non voglio star qui a fingere che A-Force sia comparabile al film di Alfonso Cuaron. Tuttavia, suggerisco alla Lepore di leggere i comics moderni con una minor dose di ingenuità credulona. L’espressione “paradiso femminista” non dovrebbe nemmeno mai essere pronunciata restando seri in volto. Noi, autori ed editor (peraltro tre donne e un tizio gay), siamo consapevoli delle origini dei personaggi di A-Force, frutto di un folle connubio di generi e di mitologie provenienti in parte dal passato. Ed è proprio questo il punto. A-Force si inserisce in un preciso discorso sul modo in cui i fumetti si occupano dei generi sessuali, in rapida evoluzione in questi anni. Anni in cui i personaggi femminili sono stati arricchiti, le loro origini analizzate e riscoperte, reinventate. Semplicemente, in A-Force, le mettiamo tutte assieme per la prima volta.

Spiace che la Lepore voglia definire i costumi indossati dalle ragazze di A-Force in copertina come “da pervertiti” e “pornografici”. Non so quale genere di pornografia veda, ma per quanto ne so le pornostar non si presentano sul lavoro in tute coprenti da ginnastica. Quel che è terribilmente ironico di questa critica su questo aspetto è che essa ignora, probabilmente per mancanza di familiarità con la materia, il fatto che le uniformi siano state appositamente progettate per rassomigliare a quelle delle controparti maschili. Molto coprenti, quasi sempre, distantissime dai costumi provocanti degli anni Ottanta e Novanta. Ma si tratta pur sempre di supereroi. Maschi o femmine che siano, si vestono di latex coloratissimo e improbabile. Se la Lepore si oppone categoricamente al latex, forse dovrebe fare le pulci ad altri generi narrativi. Persino la posa dei personaggi in copertina di A-Force è particolare: sono tutte di fronte, nessuna nella classica e assurda brokeback pose, nessuna con il sedere all’aria. Hanno atteggiamento da eroi, come i loro colleghi maschi.

A-Force #1, variant cover BPer chiunque abbia un minimo di consapevolezza di cosa sia il fumetto, queste sono tutte scelte simbolicamente importanti. Ci sono molte donne e uomini, nell’industria dei comics e tra i fan, che hanno combattuto duramente per arrivare a questo risultato, ai costumi che non mostrano le chiappe, alle copertine che non oggettificano le donne, alle storyline che non prevedono personaggi femminili sessualmente sfruttati per ragioni inconsistenti. Potrà sembrare poco a una persona della levatura culturale autocelebrativa della dottoressa Lepore, ma per coloro di noi che hanno un interesse nei confronti di questo medium è un gran risultato.

Peccato che, per chi parla di comics nei media ufficiali, leggerli non sia un requisito fondamentale. E si vede. Qual è il messaggio che dovremmo trarre dall’articolo della Lepore? Che risultato immagina di ottenere? Quale percentuale di pelle una donna verde alta due metri e mezzo dovrebbe coprire per non apparire come una pornostar agli occhi di una professoressa di Harvard? La signora non ci concede una risposta. Probabilmente non ha mai voluto farlo. Il suo articolo è la schietta dimostrazione della differenza fra una critica che viene dall’interno di una comunità, da chi ama i fumetti e vuole che abbiano successo, e una che proviene dagli auto-eletti custodi dell’arte e della cultura a cui non frega un beneamato cazzo.

Lasciatemi mettere da parte un po’ di risentimento e dire che probabilmente io e la Dottoressa Lepore vogliamo la stessa cosa: che la cultura popolare dipinga le donne meglio e con più interesse e rispetto. Quel che non capisco è come una persona nella sua posizione possa, dalla sua altissima e irraggiungibile torre d’avorio, lanciare attacchi a noi che siamo in trincea per ottenere essattamente questo risultato.

 

 

Fonte: Comics Alliance