In occasione della nostra video-recensione di Misantromorfina, abbiamo contatto l’autore Armin Barducci per un’intervista con la quale approfondire le tematiche del fumetto e quali motivazioni stanno dietro ad alcune scelte.

Ciao Armin e benvenuto su BadComics.it.
Ho appena finito di leggere Misantromorfina, che ho apprezzato, ma ti confesso di essere ancora un po’ angosciato… Cos’hai voluto raccontare quando hai iniziato a scrivere questa storia?
Ciao! Era una tarda primavera del 2008 e mi ero preso una pausa dal lavoro per rifugiarmi al Lago di Garda. Potevo ricaricarmi e riposarmi, ma avendo finalmente un po’ di tempo per me, mi svegliavo alle 5 di mattina, mi mettevo sul balcone e in circa 6 giorni ho sceneggiato la maggior parte di Misantromorfina. C’era silenzio e si sentivano soltanto gli uccellini. Un ambiente minimal. Questo è stato quando l’ho scritto, non quando l’ho pensato. Ho un approccio abbastanza particolare ai miei progetti. Ci sono quelli che nascono in una notte e si realizzano in un mese, oppure quelli che nascono nell’inconscio, in un periodo molto difficile collocato nella post-adolescenza. Quando non sei né carne e né pesce, quando sei catapultato in un mondo di adulti e non lo capisci perché troppo zeppo di regole, di costrizioni e di (apparenti) sogni infranti. Avere un figlio a vent’anni, per me, era l’orrore più totale. La fine di ogni mia aspirazione, l’incarcerazione del mio essere. Ora, 18 anni dopo, fare un figlio è l’unico e vero atto di creazione che io possa fare.
Torniamo a Misantromorfina. La storia è nata negli anni novanta ed è figlia di quel tempo. I dialoghi sono frutto del gergo, del parlato svogliato, delle speranze incontrate, della filosofia spiccia e della paura di quello che sarà. Diciamo che è un sunto di un periodo, ma diciamo anche che è un’esagerazione dei comportamenti umani. Ho potuto scrivere questa storia solo dopo aver cominciato a dimenticarmi di quel periodo post-adolescenziale. Poi l’ho disegnato solo nel 2014, ma questo è un altro passaggio che nulla ha a che fare con la storia, ma con il mio percorso di autore e disegnatore.
MisantromorfinaHai descritto Misantromorfina come una storia sul “volersi male”. È inteso più verso gli altri o verso sé stessi? Ritieni sia una condizione particolare, qualcosa che può nascere in un determinato contesto, o un elemento caratteriale che riguarda solo certi individui? 

Il “volersi male” è sempre e comunque rivolto a se stessi, anche se nel momento va al di fuori e colpisce chi ci sta attorno. Se tu fai una cosa che sai che ti fa male, ti farà male. È solo logica, fredda e distaccata. In Misantromorfina i sentimenti vengono tenuti sotto la pelle ed escono solo quando si raggiunge un apice. Succede quasi sempre. Chi invece non riesce a trattenere i sentimenti che in quel momento escono e li urla al mondo, risulterà devastante per il prossimo. Noi ci vogliamo sempre un po’ di male, ma lo chiamiamo in modi diversi. Lo facciamo sotto forma di sostanze alteranti (dallo zucchero all’eroina), di deformazioni della realtà per rendere essa più accettabile, di curiosità in cancrena. Alla fine dei conti tutti quanti lo facciamo.
Il fumetto è permeato da un pessimismo di fondo, con personaggi che compiono gesti crudeli, amori non corrisposti, bisogni frustrati e speranze che vengono completamente disilluse… e su tutto ciò non viene lasciato nemmeno uno spiraglio di luce, nemmeno una delle storie dei singoli personaggi vira verso una risoluzione un minimo positiva.
Questa atmosfera, questo atteggiamento nei confronti del mondo circostante, è qualcosa che pensi ti appartenga oppure è qualcosa che hai osservato nelle persone e nell’ambiente attorno a te e che hai voluto rappresentare? 

Sembrerà strano, ma io amo il mondo e sono un fagocitore di storie e vicende umane. Vivo una vita abbastanza tranquilla, lavoro sodo, amo e lavoro nel sociale. Quel mondo che racconto è quello in cui mi trovo. Io vivo in esso, ma vivo anche in un mondo fantastico e decisamente più positivo. Ho giornalmente a che fare con ragazzi che hanno una vita simile a quella raccontata in Misantromorfina. Lo conosco bene perché l’ho visto in passato e soprattutto lo vedo ogni giorno, solo con la differenza che il protagonista non sono più io, ma sono solo uno spettatore che cerca di fare il suo meglio per aiutare chi, alla fine, non vuole essere aiutato.
Per quanto riguarda invece l’ambientazione, i personaggi di Misantromorfina si muovono in una periferia non meglio definita, che potrebbe appartenere a una città in qualunque parte del mondo. È un tipo di zona che conosci perché ci vivi e sei cresciuto, oppure era il tipo di luogo di cui avevi bisogno come fondale per questa storia?
I luoghi sono ispirati ad un quartiere di Bolzano, per inciso, da un preciso viale dove l’edilizia degli anni settanta ha fatto dei discreti disastri di cemento. Non ci sono cresciuto in quel quartiere e nemmeno l’ho vissuto tra i 20 e 30 anni, ma ci ho abitato mentre la storia stava crescendo nella mia testa. Pensavo alla storia, mi guardavo attorno e lo scenario sembrava perfetto.
Armin BarducciAlcuni personaggi indossano -letteralmente- una maschera, elemento che sembra quasi non essere percepito da chi la vede. Da cosa deriva la scelta delle maschere? Perché in particolare -quei- personaggi hanno una maschera, quando anche altri sembrano avere alcuni aspetti di sé che non vogliono mostrare agli altri?
Ho sempre lavorato con il velare volti, mascherare persone e mutare di aspetto. Misantromorfina segna anche la fine di questo mio (lungo) periodo. Da qui in poi, il mascherare non ha più così tanta importanza. Anche nella storia i personaggi non prestano attenzione su quello che noi, da lettori, riteniamo anomalo. In quel mondo è così, come nel nostro mondo non lo è. In questo modo ho aumentato il distacco tra la storia e il lettore, che deve inesorabilmente rimanere uno spettatore esterno che si lascia portare dalla storia dove io voglio che lui vada. Anche se le tematiche sono dure, personali e soprattutto, riconoscibili.
Oltre alle maschere vediamo uomini che si scrivono in testa, persone piantate nella terra, forme geometriche parcheggiate ai bordi delle strade. Come mai l’inserimento di questi elementi surreali in una storia che potrebbe essere realistica?
La risposta è identica alla precedente. Aggiungo solo che inizialmente, nel 2008, avevo già iniziato a disegnare, ma in uno stile decisamente diverso. Realistico, molto cupo, ma sempre con gli stessi elementi che traviano la realtà.
Nonostante la ferocia di quello che avviene nella storia, i tuoi personaggi hanno un aspetto stilizzato, con occhi a puntino e corpi quasi cartooneschi, che in alcune sequenze però diventano improvvisamente inquietanti. 
È una costante del tuo stile grafico o per questo tipo di storia hai cercato di sviluppare qualcosa di differente, più adatto a una narrazione così inusuale? 

Sulla questione dei dettagli che poi risultano inquietanti non ci ho mai pensato. Non so con precisione da dove possa derivare. So che mi viene da fare così e che continuerò a farlo (naturalmente se ha senso nella storia). Lo stile cartoonesco invece è il mio stile originario. Quello più vecchio che controllo e che conosco. Da sempre ho voluto unire il disegno “non realistico” e cartoonesco con una storia che di buffo o comico non ha niente. Beh, eccola qua. :)
Barducci MisantromorfinaQuali sono gli autori e le opere a fumetti che ti hanno ispirato e che pensi abbiano influenzato il tuo stile, sia visivamente che per la scrittura?
Amo l’Indie americano. Sulle estetiche è innegabile il mio amore per Burns. Amo anche Corben, Pope, Andreas. Per le storie e la struttura, Chris Ware. Per il ritmo di lettura invece un opera in particolare, “8, 9, 10” di Arne Bellstorf.
Ricordo alcuni tuoi racconti a fumetti sulla fanzine Monipodio, mentre Misantromorfina è la tua storia più lunga e più complessa. Come ti sei trovato a passare da storie brevi a un lavoro più elaborato e più complesso?
Direi che mi sono trovato abbastanza bene e direi che lo rifarò ben volentieri. Ora sto lavorando a ben 2 progetti lunghi, uno dei quali potrebbe superare le 200 pagine, ma aspettiamo che lo finisca di scrivere. Posso solo dire che si tratterrà una storia ben più crudele e senza speranza che Misantromorfina.
Quando ti ho contattato per l’intervista mi hai detto di essere reduce da 12 ore di laboratorio e di insegnamento. Ci puoi parlare di come utilizzi il fumetto nell’attività didattica e formativa?
Utilizzo il fumetto in ogni sua forma educativa. Dai lavoratori creativi con bambini delle elementari, ai progetti di fumetto (e basta) con quelli delle scuole medie. Alla terapia di disegno per sequenze con persone disabili a corsi di disegno ed accompagnamento alle lettere a casa con i carcerati. Inoltre uso il linguaggio del fumetto in teatro e nello storytelling, dove disegno con proiezione dal vivo interagendo con gli attori sul palco. Come ho detto già prima, sono una persona curiosa e mi piace fare ciò che faccio. Anche se è dura, anche se il più delle volte torno a cara finito e svuotato. Fa parte del gioco, fa parte del mestiere.